Ho letto da qualche parte che i
francesi sono come gli italiani di cattivo umore. In un'opera minore,
dopo aver paragonato la donna ad una specie di animale domestico,
Schopenhauer, afferma che che in Francesi stanno all'Europa come le
scimmie all'Africa. Che esagerato!
Più di qualcuno, nel corso degli anni,
mi ha commentato che i francesi sono senz'altro snob e freddini.
Quando conobbi personalmente ragazzi e
ragazze francesi in Italia, mi diedero un'altra impressione; il
contesto era quello dei campi lavoro internazionale e si trattava di
persone simpatiche, aperte, autoironiche e amanti delle crepes.
Certo,
quando avevano i nervi, strizzavano gli occhi, stringevano i pugni e
pronunciavano parole dure, ma non notavo in questo grande differenza
con gli italici.
I francesi mi mostrarono foto di valli
verdi, con laghetti e ruscelli, paesini di campagna, coste. La
lingua, va beh, è un po' difficile; l'avevo studiata alle medie ma
non ricordo quasi niente ad eccezione di insegnanti nevrotiche che
urlavano e scrivevano note di demerito.
Ora che sto studiando francese
all'università di Aguascalientes va decisamente meglio.
Il Messico è meta ambita dai giovani
francesi, le relazioni diplomatiche fra il Messico e la Francia sono
buone, qui l'offerta culturale francese è ottima e ben organizzata
attraverso i centri di cultura alliance française.
Il primo francese che incontrai in
Messico era un ragazzo più o meno della mia età con una P tatuata
sul collo che si era improvvisato maestro di francese in un piccolo e
squallido collegio del centro (lo stesso nel quale avevo trovato
impiego io).
Vista l'analogia di situazione tra me e
lui, una volta gli proposi di uscire per una birretta. Mi guardò con
molta attenzione inclinando leggermente la testa di lato e
aggrottando le sopracciglia. Credo considerasse, la mia, una proposta
terribile e fuori luogo. Infatti me lo disse: “Guarda, se vuoi
parlare con me, puoi farlo durante le riunioni di istituto.”
La simpatia, l'interesse, la
solidarietà che provavo nei suoi confronti scomparvero
immediatamente. Le nostra nostra relazione divenne buon giorno e
buona sera, anzi bonjour et bonsoir.
Quando poi iniziai a studiare francese,
conobbi l'assistente Charlotte (nome inventato), una ragazza
originaria della Bretagna.
La prima volta, entrò in aula vestita
con jeans troppo lunghi, arrotolati sulle caviglie, una maglietta
lisa e anfibi violacei.
Vederla mi ricordava quelle notti
di bonghi e vino in cartone consumati in piazza Dante a Verona. Il
suo volto aveva un'espressione dura. Stimai inoltre che non si
lavasse i capelli da tre o quattro giorni. L'unica parte veramente
bella erano gli occhi color grigio perla che permettevano di entrarle
nell'anima e la rendevano un pochino vulnerabile.
Senza salutare disse che ci avrebbe
parlato della francofonia nel mondo e lo fece aiutandosi con una
presentazione Power Point. Alla fine della lezione si lasciò andare
ad una serie di considerazioni del tipo che lei era una persona
franca e diretta non come i messicani che dicono di sì a qualche
proposta per poi non presentarsi; che lei era una persona matura ed
indipendente, non come le messicane che si fanno mettere incinte per
poi scontare la pena recluse a vita in casa.
Insomma, se voleva degli studenti per i
suoi club di conversazione, non stava giocando le carte giuste.
In ogni caso, io decisi di andarci ai
suoi club di conversazione; se avesse continuato con quel tono però
l'avrei messa al suo posto; ferire nel profondo una ragazza è una
cosa che mi riesce piuttosto bene.
Nel club si presentò e, sempre senza
salutare né guardarci in faccia, disse: “Gioco o conversazione?”
Nessuno capì e lei ripeté: “Gioco o conversazione?” Scegliemmo
il gioco.
Era un gioco dell'oca con domande alle
quali bisognava rispondere in francese come per esempio: “Qual è
il tuo piatto preferito?” o “Cosa ti piace fare nel tempo
libero?”
A lei capitò di dover rispondere alla domanda: “Qual è
la cosa per la quale vai orgogliosa nella tua vita?”
Charlotte parve turbata. Titubò prima
di rispondere: “Mia sorella... senza dubbio... sì... lei è...
super!”
Ciò mi parve molto interessante perché Charlotte ammise
di non essere particolarmente soddisfatta della sua propria vita.
Un'intuizione s'accese dentro di me; la
freddezza di Charlotte non era altro che una maschera per celare la
propria sofferenza interiore.
Dopo un mese, venne in aula a parlarci
di Parigi. Poiché la presentazione terminò presto, le facemmo
qualche domanda sulla Bretagna. Io immaginavo questa regione ridente
e festosa, stile Asterix, invece Charlotte disse:
“I trentenni
bretoni hanno tre destini. Il primo: si sposano, hanno fanno figli e trascorrono tutto il tempo ad accudirli. Il
secondo: partono. Il terzo: muoiono di droga e alcol”
Disse che in quei paesetti non
succedeva niente di niente, nessuna nuova idea, nessuna proposta
culturale, solo ad un giorno ne seguiva un l'altro.
Là, Charlotte litigava quotidianamente
con la sua famiglia e la mala politica non la faceva dormire. In
Messico la sua esistenza però era migliorata; la vita era più
semplice, i paesaggi più vasti, le prospettive migliori.
Il suo
contratto con l'università stava per concludersi e sarebbe tornata
in Bretagna ma solo per prepararsi per un nuovo viaggio in Messico
con cui avrebbe cominciato una nuova esistenza. Mentre diceva queste
cose, i tratti del suo volto si raddolcirono, le rughe di tensione
sparirono, le braccia persero rigidità, i suoi occhi bretoni
scintillavano; era diventata davvero bella, una francesina da
cartolina.
Alla fine ringraziò tutti e io le
augurai di cuore buona fortuna.
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