Un maestro in Messico ha un solo grande
problema; mettere insieme un numero di lezioni settimanali
sufficienti per poter sopravvivere. La sua giornata tipo è dar
lezione alcune ore in una scuola per poi gettarsi nel traffico per
raggiungere la scuola successiva in orario.
Il suo sogno è quello di ottenere una
plaza, un posto fisso presso una scuola federale che dà diritto ad
assicurazione sanitaria, pensione buono stipendio.
Anch'io, ora, mi trovo in questa
situazione così, quando un collega dell'università mi riferì che
cercavano un maestro di italiano in prestigioso istituto della città,
accettai volentieri di incontrarmi con il coordinatore di lingue
straniere.
Mi avevano riferito che si trattava di
una scuola cattolica ma questo non rappresentava un grosso problema.
In fondo, mi dicevo, sono tollerante. Bisogna solo mettersi d'accordo
sulle ore, sui libri di testo e sul regolamento scolastico; se poi
gli studenti andassero a Messa tutti i giorni o sognassero di
diventare santi o cardinali, questi erano affari loro.
Qualche giorno prima del
colloquio,scoprii che il collegio in questione era gestito dall'Opus
Dei.
Mi ripetevo che dovevo solo dare un
corso di italiano, probabilmente si sarebbe trattato di un corso facoltativo, robetta.
Stampai un curriculum, indossai una
camicia e un paio di pantaloni formali e mi presentai alla scuola.
La struttura era ordinata e ben tenuta;
incontrai sulla soglia un guardiano che mi chiese cosa andassi a
fare, scrisse la mia risposta in un blocco notes e mi indicò la
segreteria.
Entrai.
Le segretarie in
uniforme mi salutarono e mi fecero accomodare su un divano accanto
ad un signore grasso e calvo che sudava copiosamente.
Nella
segreteria c'era fermento. Le segretarie la
attraversavano reggendo plichi di carte. C'era un ragioniere
dall'aria arcigna che dettava a qualcuno una serie di importi. Vidi
su una mensola la statuetta argentata di un santo fra due coppe
sportive, appesa alla parete c'era invece una Vergine di Guadalupe ed
un crocifisso.
Finalmente vennero il collega e il
coordinatore di lingue straniere. Mi fecero strada fino ad una
stanzetta che diceva: “Interview Room 2”.
Forse il colloquio non
sarebbe stato breve ed informale come mi aspettavo.
Dentro, la stanza era piccola arredata
con un tavolo rotondo ed alcune sedie.
Il coordinatore si sedette difronte a
me e mi esaminò. Io feci lo stesso con lui.
Era un uomo piuttosto grande, obeso,
con i capelli corti pettinati all'indietro con il gel ed enormi occhi
rotondi. Dispose sul tavolo il suo palmare e prese a leggere il mio
curriculum. Parlava a voce bassa, sospettosa e buona come certi
preti. Fin dalle prime parole che mi rivolse mi parve che
considerasse il mondo come un luogo infido e pericoloso da affrontare
con estrema prudenza.
La prima domanda che mi rivolse fu
riguardo la mia professionalità di docente. Gli illustrai la mia
brillante carriera di profe precario.
La seconda domanda se fossi o meno
cattolico. “Tecnicamente, sì.” Ammisi.
Allora mi parve che le luci si
abbassassero di un poco. Il coordinatore si sporse lievemente in
avanti e sibilò:
“Tu conosci la nostra
organizzazione?” Fece una lunga pausa. Credo che udii un tuono.
“L'Opus Dei?” Fuori un cavallo nitrì disperato.
Mi sentivo in imbarazzo. Era come se il
tuo capo ti presentasse una ragazza cicciona e brufolosa con due
baffi alla Pancho Villa e ti dicesse: “Questa è mia figlia, che ne
pensi di lei?”
L'immagine dell'Opus Dei che si disegnò
nella mia mente era quella di un prete spagnolo che delirava:
“Pregare, pregare, pregare; espiare, espiare, espiare”.
Non mi parve saggio dirglielo.
Ammisi che non ne sapevo granché,
dissi che il fondatore dell'Opus Dei era un santo, che si dedicavano
alla catechesi e all'educazione e che esistevano praticamente in
tutto il mondo.
Questo parve rassicurarlo. Mi disse
qualcosa riguardo al concetto di santificare la vita con il lavoro.
Se il concetto era, fai bene le tue cose, mi trovavo d'accordo.
Parlammo ancora un pochino del ruolo
del maestro. Poi il coordinatore parve rilassarsi.
“Ok, Dario. Fin qui va tutto bene.”
Spense il palmare e prese il curriculum. “Venerdì potresti passare
per il colloquio spirituale?”
“Il che?”
“Sì, si tratta di un secondo
colloquio con direttore della scuola. Dobbiamo essere sicuri che le
tue idee e il tuo modo di vivere ed intendere la vita sia conformi ai
nostri. Sai, avrai a che fare con dei ragazzi e non vogliamo che
siano contaminati da idee.”
Usò proprio il termine contaminare.
Idee che inquinano le coscienze.
“Ah, già che ci sei. Vedi come ci
vestiamo qui? In giacca e cravatta. Puoi venire vestito così per il
colloquio spirituale e per dare lezione? E' un problema?”
“No, chiaro che no”. Già mi
immaginavo di salire su un autobus alle sette del mattino, fra gli
operai, con il mio unico vestito decente per andare insegnare ai
ragazzini italiano. Magari qualcuno di loro mi avrebbe macchiato i
pantaloni con le mani sporche di marmellata.
Io e il coordinatore ci stringemmo la
mano. Il collega mi raggiunse fuori e mi disse che il colloquio era
andato bene e che lì pagavano profumatamente.
Uscii stordito. Decisi di camminare un
po'. Non importava se il sole picchiava ed ero su una specie di
tangenziale. Dovevo prendermi un tempo per riflettere...(continua)
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RispondiEliminadevo confessarti di essere ormai aconfessionale, sebbene ancora "iscritto" al club dei fan di gesù e affini, devo dire che è strano che un "uomo di fede" ammetta candidamente l'avversità della religione per il pensiero, ma prova solo a pensare quante volte, parlando in italiano, sostituiamo il verbo pensare, col verbo credere.
RispondiEliminaSì, c'è da riflettere!
EliminaAmmiro il tuo sangue freddo. Questo è una di quelle situazioni in cui la mia parte impulsiva prende il sopravvento e decide da sola. E posso immaginare benissimo la faccia del coordinatore se esterno le mie idee sul "colloquio spirituale".
RispondiEliminaSì Anna, credo che questo succeda solo lì e nelle scuole coraniche.
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