Avete mai sentito parlare dei poligoni
di povertà? Io prima del Messico, mai.
Per tracciare un poligono di povertà,
il tecnico del municipio prende la mappa di Aguascalientes e,
utilizzando un programma GIS, racchiude alcune aree urbane dentro le
quali, secondo le statistiche, il reddito pro capite dei residenti
non fa invidia a nessuno, inoltre, lì, gli autisti degli autobus e i tassisti si
rifiutano di entrarvi di notte perché sono fonte inesauribile di
notizie di cronaca nera.
I principali interventi sociali portati
avanti con discontinuità, secondo le disponibilità finanziarie del
municipio e la sensibilità degli amministratori, si concentrano
proprio in quelle zone.
Va anche detto che sono aree piuttosto
popolose e, per un politico, rappresentano importanti serbatoi di
voti; quindi è bene farsi notare proponendo corsi e laboratori
gratuiti.
Ai residenti i corsi di superazione
personale, anche se utili e gratuiti, non interessano un gran ché
così il municipio deve inventarsi qualche incentivo per incoraggiarne
la partecipazione. Il più comune è regalare ai partecipanti, alla
fine del corso, una dispensa alimentare.
Detto fra noi non sempre le
famiglie sono alla fame, svolgendo qualche lavoretto anche saltuario,
potrebbero benissimo tirare avanti ma anni di politica paternalista
hanno lasciato il segno.
"Mi dai un quantità di fagioli a fine corso?
Bene, mi iscrivo, sennò mi guardo la telenovella in televisione e fa lo
stesso. Non sono io quello che deve giustificare il fatto di ricevere
uno stipendio pubblico."
Fino ad ora mi è capitato due volte di
partecipare a questi programmi in qualità di formatore.
Il primo progetto riguardava
l'ottimizzazione dell'uso dell'acqua domestica per risparmiare sulla
bolletta e ridurre gli sprechi; l'acqua è molto preziosa in un
ambiente di semi deserto.
Il secondo invece era infocato sulla
sensibilizzazione dei principi di “Carta della Terra”, noto
programma etico per la sostenibilità ambientale adottato a livello
internazionale.
La novità, per me, era quella di dover lavorare con
una categoria di persone adulte etichettate con il titolo generico
di “povere” o, più gentilmente: “personas de bajos recursos”
e lo avrei fatto in un paese straniero, in un contesto socioculturale
diversissimo da quello italiano, parlando in una lingua che non era
la mia.
Alla luce di ciò non era escluso che potesse anche andarmi
male.
Durante la pianificazione dei corsi, i
miei coordinatori mi avevano descritto i partecipanti come persone
simpatiche e tranquille ma, allo stesso tempo, pigre, poco
intelligenti ed estremamente a disagio di fronte concetti non
elementari. Mi avevano consigliato di rimanere terra terra senza
osare avventurarmi in riflessioni che coinvolgessero l'utilizzo di
più di due neuroni.
I corsi avevano luogo in scuole
elementari che, a differenza di quelle italiane, erano di struttura
molto semplice: un cortile di cemento e, tutt'intorno, palazzine di
un piano contenenti le aule. Considerata la quantità di bambini, le
lezioni si tengono in due turni: il mattutino e il vespertino.
Quando mi avvicinai per la prima volta
alla scuola ero piuttosto emozionato.
L'ambiente che incontrai però non era molto diverso
dal contesto italiano. I bambini giocavano in cortile mentre un
bidello scopava il piazzale e un gruppetto di mamme conversava aldilà
della rete.
Le uniche differenze rispetto alle madri italiane era che
le messicane non fumavano, non avevano intasato la strada con i Suv e
nemmeno erano in escandescenza in preda a neurosi mai curate.
Vestivano bene, secondo i dettami
latini, espertamente truccate e, mentre chiacchieravano con tutta
calma, lanciavano occhiate ai propri figli.
I miei gruppi erano composti
principalmente da mamme e nonne. A volte vi partecipava qualche
adolescente o almeno io le consideravo tali prima di rendermi conto
che, nonostante avessero sedici anni, erano già madri e spose al
pari delle altre.
Il loro atteggiamento non assomigliava
neanche vagamente a quello ambiguo degli zingari o dei disadattati
che studiano il sistema migliore per fregarti.
Mi osservavano invece con curiosità
per via della mia altezza e dei capelli biondicci, senza però
chiedermi apertamente da dove venissi.
“No, non sono gringo”, esordivo:
“Sono italiano, avete presente quelli che mangiano sempre pizza e
pasta?”
Allora l'istinto materno le vinceva e
mi trattavano un po' come un figliolo e un po' come il loro amore
impossibile. L'età non contava, le sessantenni erano audaci e
amavano “alburear”, ossia parlarmi con doppi sensi.
Io stavo al gioco fingendomi
imbarazzato. Mi chiedevano se mi piacesse il cibo locale, la musica e
la gente. Il loro atteggiamento era quasi sempre positivo, a volte
ingenuo, ma molto umano.
Sì, la sensazione era quella di stare
facendo qualcosa di utile non con colleghi o professionisti bensì
con genuini esseri umani.
Anche se non avevano finito le elementari, si trattava di persone adulte e da tali le trattavo: davo sempre del lei e non avevo paura a proporre di ragionare.
Si rideva spesso. A volte le signore
più anziane mi raccontavano episodi della loro vita piuttosto
difficili come la perdita di figli e del marito. Erano storie di
miseria, dolorose.
Poi però con una battuta ritornavano
al presente. “Cosa facciamo adesso? Cantiamo una canzone?
Balliamo?”
I corsi prevedevano infatti momenti di
gioco e balli improponibili ad adulti italiani. Le signore messicane
invece si divertivano un mondo.
Parlavano della loro povertà con
commenti sarcastici come se si trattasse di uno scherzo del destino:
“Oggi mi sono alzata e, che credi? Non avevo nemmeno i
soldi per le tortillas”.
“Sul serio?”
“Sì, per fortuna ho un po' di
pancia!”
In questi ambienti difficili, senza
molta istruzione né mezzi economici, ci si sposa, si fanno figli, si
cerca di mettere su casa. Da fuori possono apparire esistenze misere,
invece da vicino è autentica vita pulsante.
E' gente che per un motivo o per
l'altro crede nel futuro: è capace di farsi un viaggio rischiosissimo
su un treno merci, passare il confine con gli Stati Uniti e in barba
a tutte le leggi rifarsi una vita.
Alla fine dei corsi, dopo la cerimonia
di chiusura, nella quale è d'obbligo, di fronte alle “autorità”
dichiarare che è stata una bella esperienza, battere le mani e
ringraziare, alcuni mi si avvicinano e mi dicono, timidamente, che è
stato bello conoscermi.
Io mi scioglievo dalla contentezza.
Bellissimo. Sembrava di essere lì.
RispondiEliminap. s. : scusa se non ho risposto alla tua mail, ad ogni modo lo faccio qui e ti dico nessun problema (per il discorso degli amici di penna in italiano)!
Un abbraccio!
Grazie! Ok! ti metterò in contatto!
EliminaPrima cosa: bel blog! Sono contento di averlo scoperto.
RispondiEliminaSeconda cosa: credo non sia impossibile trovare ambienti simili in Italia, penso a certe borgate, o un quartiere (povero) della cittadina da cui vengo dove c'è ancora un realtà "da villaggio", con le vecchie che d'estate portano la sedia fuori dalla porta di casa e stanno la sera a chiacchierare. La povertà è una grande impronta interculturale. Per esperienza personale, quando sei in viaggio e qualcuno condivide cibo e birra con te, senza che tu lo conosca, di solito è tutt'altro che ricco.
"Quando sei in viaggio e qualcuno condivide cibo e birra con te, senza che tu lo conosca, di solito è tutt'altro che ricco!"
EliminaQuesta è una gran bella frase, degna di un grande viaggiatore!
che bel post! non è strafigo insegnare, quando poi la gente alla fine ti dice anche "bel corso, sono felice di averti incontrato"? io ho gli studenti per venti ore a settimana per dodici settimane, qui. alla fine parlano inglese meglio che all'inizio, e io sono smoccolante come in una telenovela brasiliana, quando li saluto.
RispondiEliminaE che vivi in Austria... aspetta di venire in America Latina! Qui l'aspetto emozionale si decuplica.
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