Non so se ve l'ho già detto ma sto
collaborando, in qualità di formatore, a degli incontri rivolti alle
colonie. Il programma si chiama: “Convive Feliz”, un tentativo da
parte del Municipio di ridurre la conflittualità di alcune zone
della città facendo sensibilizzazione.
Affianco una psicologa. Pur non avendo
una formazione specifica di sociologo, vi partecipo, perché i temi
trattati non sono di per sé difficili (Valori, diritti umani, equità
di genero); l'abilità sta nel presentarli ad un pubblico composto
principalmente da nonne e casalinghe. Si tratta solo di fare un po'
il simpatico, fare in modo che la gente parli e condivida il proprio
punto di vista.
La settimana scorsa, dopo il consueto
incontro ad Alta Vista, un ragazzo ha proposto a me e alla psicologa
di visitare la palestra di pugilato di suo fratello.
La boxe in Messico è uno sport
piuttosto popolare, specialmente del Distretto Federale. Vi si
avvicinano ragazzi di ceti bassi alla ricerca disperata di una
possibilità di riscatto sociale. Giovani che avranno fatto sì e no
la quinta elementare, a cui propongono lavori a termine di tre o
quattro giorni. Giovani che vedono crescere, poco distante da casa
loro il progresso e il benessere, ma sanno di esserne esclusi. Gente
che vive quotidianamente la tensione sociale e famigliare, che
mettono insieme le monete per comprare da mangiare.
Gente che per mesi si alza la mattina e
non ha di meglio da fare che sedersi sul marciapiede e dar un po' di
brivido all'esistenza annusando colla, rapinando passanti e
attaccando briga con giovani nelle stesse condizioni.
Una palestra di pugilato è una
possibilità. I giovani entrano, si tolgono la maglietta e si
allenano al sacco e alla pera. Saltano la corda per acquisire
elasticità. Qualcuno con un po' di esperienza spiega i rudimenti del
combattimento, come tenere la guardia e come colpire l'avversario.
Poi, ogni tanto, si organizzano
incontri. Nell'ambiente si affermano solo i più bravi, così ogni
ragazzo che entra in palestra si pone un obiettivo: diventare un
pugile in gamba e questo lo aiuta a tenersi alla larga dalla
delinquenza.
Insomma, il tizio della colonia ci
invita e noi accettiamo.
Ci andiamo in macchina. La palestra è
situata in una vietta interna fra case e negozi di alimentari; poche
macchine parcheggiate ai lati della strada. Si tratta di un unico
stanzone con le pareti di mattoni a vista e pavimento di cemento.
Il
soffitto è così basso che posso toccarlo alzando una mano. La
maggior parte dello spazio è occupato da un ring artigianale fatto
di corde elastiche ricoperte da un tubo di gomma arancione. Il
pavimento del ring è una vecchia stuoia grigia. Vedo anche due
sgabelli agli angoli e un enorme riproduzione della vergine di
Guadalupe appesa alla parete. E' strano vedere la Madonna a mani
giunte in un luogo dedicato alla lotta.
Lampadine nude illuminano fiocamente il
locale. Sono le nove di sera e stanno per chiudere, mi spiegano, per
questo non ci sono molti pugili.
Un tizio che indossa un paio di scarpe
da ginnastica e un paio di jeans si sta allenando con la pera. E' di
pelle scura che luccica di sudore e, quando si avvicina, vedo anche
la sua faccia.
E' una di quelle che di frequente compaiono
sulle foto del giornale con un buco in fronte e gli occhi rovesciati
all'indietro.
Il giovane muscoloso con la faccia da ergastolano mi
sorride e mi tende la mano: “Benvenuto!” mi dice. E' uno degli
istruttori che si turnano durante il giorno.
Come dappertutto, un allenatore riveste
un ruolo chiave nei giovani perché oltre a trasmettere i segreti
dell'arte, ne tempra anche il carattere.
Il proprietario della palestra che, per
vivere, stampa magliette, ci mostra i guantoni consumati dei ragazzi.
“Ci alleniamo con questi”. Dice.
“La quota di iscrizione è di
quaranta pesos a settimana (2 euro)” Mi spiega: “Però solo il
dieci percento degli iscritti ha i soldi per pagare. Ma non c'è
problema. Accogliamo tutti. Con l'incasso paghiamo la luce e
l'acqua.”
Proprio in quel momento arriva un altro
allenatore. Indossa un cappellino con un paio di occhiali da sole e,
dalle orecchie, gli pendono gli auricolari di un riproduttore mp3
(Dubito fosse un I-pod).
E' allegro. Ci racconta che sessanta
ragazzi frequentano quasi quotidianamente la palestra. Il livello
atletico cresce di giorno in giorno. Peccato che non ci sono fondi
per ampliarne un po' la struttura. Poi si rivolgono alla psicologa e
le chiedono se può aiutarli ad organizzare una chiacchierata con i ragazzi.
Qualcosa di motivazionale che li aiuti un po' a
credere in loro stessi, a capire che sono persone e a volersi bene
(in psicologia, si dice aumentare la propria autostima).
Non c'è problema, dice la psicologa.
Allora il proprietario ci dice che qualche volta il municipio
organizza qualche corso di autosuperazione personale, ma non vi
partecipano in molti. “Il problema”, dice: “E' che ci
trattano come bambini idioti e questo non va. Non puoi dire ad uomo
di credere in se stesso e allo stesso tempo trattarlo da ritardato.”
La psicologa dice che non c'è
problema. Si può pensare a qualcosa. Tutti sembrano soddisfatti e si
stringono le mani. La psicologa allora scherza e chiede se posso
iscrivermi anch'io. L'istruttore mi guarda e fa si con la testa. Non mi sta
prendendo in giro. Probabilmente se mi presentassi con i quaranta
pesos dell'iscrizione mi farebbe saltare la corda e poi irrobustirmi al sacco.
A pensarci bene non è una brutta
proposta. Mi immagino bello tonico e muscoloso dire a qualcuno: “Ehi
amico, guarda che ho imparato a fare a pugni, in una palestra di
Altavilla, non ti ci mettere con me.”
Purtroppo però abito troppo distante.
Fuori, seduto sul marciapiede incontriamo un ragazzo di circa sedici anni che indossa la divisa di una scuola preparatoria.
E' taciturno e ci guarda senza espressione. L'istruttore lo
conosce di nome e lo saluta. Questo ragazzo, ci spiega, da qualche
settimana viene qui.
Vuole cominciare ad allenarsi ma allo stesso
tempo ha dubbi e paure. Noi non gli facciamo pressione, lo lasciamo
combattere la sua lotta interiore.
Un giorno, quando si presenterà alla porta,
noi gli daremo un paio di guantoni.
se non ricordo male avevi più di qualche rudimento come judoka, comunque sono Sebastiano mi hai scritto su facebook qualche tempo fa, ti avevo risposto via mail, ma non ho più avuto tue notizie, spero vado tutto bene, o approssimativamente bene, fatti vivo. Sappi che ho rintracciato anche andrea, lo dovresti ricordare... veniva a Spiazzi con noi. Sarebbe utopico immaginare una rimpatriata in messico però se ti fai vivo possiamo ristabilire i contatti. ciao
RispondiEliminaQui tutto approssimativamente bene, come al solito! Nella mia giovinezza sono stato una temibile cintura blu di judo: 1.80 per 50 kg di peso, per i miei avversari era come fare cadere il manico di una scopa, ah! ah!
EliminaCome sarebbe a dire che una rimpatriata in Messico è utopia? Bisogna solo attraversare una pozzanghera su un aereo! Ti aspetto!
Dario, non dimenticare che oltre a far uscire dall'ambiente malavitoso i ragazzi, la boxe (e oggi soprattutto le MMA, vanno molto in USA e Brasile) rappresentano, in un ambiente molto povero, anche una speranza di successo e potenzialmente un modo per fare soldi. Nel mondo del pugilato c'è un giro di scommesse e di affari (media, sponsor,ecc..) non indifferente, e questo loro lo sanno!
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